Eugène Minkowski, Il tempo vissuto

Recensione di Natale Migliorino.

IL TEMPO VISSUTO. FENOMENOLOGIA E PSICOPATOLOGIA.
Autore: Eugène Minkowski
Editore: Einaudi, Torino
Anno di pubblicazione: 2004.

Lo slancio personale e l’esperienza terapeutica.
Che ci fa il libro di uno psichiatra in una biblioteca di riabilitazione fenomenologica? Si tratta di uno dei massimi esponenti storici della psichiatria fenomenologica, ma non è tanto e semplicemente il suo carattere “fenomenologico” applicato a una altro ambito disciplinare che rende quest’opera degna di stare nella nostra biblioteca, quanto il suo respiro teorico capace di delineare una struttura dinamica originaria, primaria rispetto ai costrutti dualistici mente/corpo di cui si è soliti servirsi nel pensiero e nella descrizione dell’esperienza. Nel suo concetto di “slancio personale” Minkowski è debitore dello “slancio vitale” di Bergson.

Dal punto di vista dell’io lo slancio personale è l’espressione delle forze vitali super-individuali che trascendono l’io cosciente sul versante della sua origine. Esso quindi non origina nell’io, ma è la fase di convogliamento e attraversamento individuale da parte di forze motivazionali profonde, inconsce. Minkowski parla a questo proposito, con un ossimoro efficace, di “coscienza dell’inconscio”, secondo una struttura ontologica di “dualità indivisa” che rompe con i dualismi e i riduzionismi con cui si è impostato il dibattito sulla mente. In particolare la differenza sostanziale è con l’inconscio inteso dalla psicanalisi freudiana, quale luogo nascosto e separato dalla coscienza, e in rapporto fondamentalmente conflittuale con essa. Una maggior similitudine strutturale trovo invece con il concetto di “inconscio collettivo” di Jung, sebbene, in una prospettiva fenomenologica, l’analogia si fermi qui e non comprenda i contenuti simbolici degli archetipi universali come dati preesistenti all’esperienza. Ma più in generale mi pare che la coscienza dell’inconscio trovi forti analogie con la concezione della “mente diffusa” proposta da uno stile di pensiero ecologico, capace di considerare l’intima solidarietà e la continuità fra senso dell’esperienza soggettiva e qualità espressive dell’ambiente esperienziale.

L’interesse della dualità indivisa della “coscienza dell’inconscio” per un riabilitatore può presentare un forte interesse critico nel destrutturare la zavorra dualistica (e insieme riduzionistica) che così

pesantemente condiziona e isterilisce gran parte del pensiero riabilitativo corrente: psiche/corpo, teoria/esperienza, struttura/funzione, cognizione/riflesso, movimento volontario/involontario, dolore presente/assente, ecc. Lo stesso tentativo di uno sguardo più comprensivo sul soggetto paziente, portato avanti dal modello ICF, viene assimilato a questa struttura dualistica e digerito nei termini di una mera giustapposizione e sommazione diagnostica fra realtà materiale (il funzionamento e le menomazioni fisiche della condizione di malattia), psichica (i bisogni dell’individuo) e sociale (l’appartenenza e i ruoli giocati nel contesto sociale). L’atto di comprensione terapeutica di cui è intriso ogni momento dell’esperienza terapeutica, mantenendosi in sintonia con la sintesi originaria dello slancio vitale inter-personale terapista/paziente, non può adottare le forme statiche e disincarnate di un pensiero catalogante, incapace di rappresentare la genuina composizione dell’esperienza del patire e di quella terapeutica.

Un altro concetto fortemente connesso a quello di slancio personale, e da cui possiamo trarre stimoli significativi, è quello di “opera”, quale realizzazione dello slancio personale. Alcune citazioni: “L’opera ha sempre una portata, un carattere oggettivo, o meglio trans-soggettivo … L’opera compiuta si integra al mondo in cammino … quest’opera riesce a lasciarvi un segno. Compiuta che sia, la mia opera si distacca da me e continua la propria vita … il divenire-ambiente diventa ciò che è solo perché il mio slancio personale viene a integrarvisi, solo perché esso vi prende corpo. È questa integrazione che gli conferisce a mio parere il carattere di qualche cosa di reale, di effettivo, di consistente, di tangibile” (pp. 55-56).

Il concetto di “opera” intesa in questo modo scompagina l’idea consueta di movimento così centrale nel nostro lavoro, e che tendiamo a rappresentare secondo forme elementari, ordinate e “controllate”. Nel concetto di opera in quanto forma di realizzazione trovo una possibilità di sviluppo e continuità con la mia riflessione sulle “forme gestuali” che pongono più in risalto la qualità espressiva e relazionale del soggetto. In tale sviluppo come realizzazione si rende esplicito il carattere performativo e generativo del gesto come opera: ossia la sua capacità di produrre nuova realtà, destinata a trascendere il mio senso e il mio scopo personali e contingenti. È quello che intuisco quando sento che i miei gesti mi attraversano, e vanno oltre me.